IL SEGUENTE ESTRATTO E' UN CAPITOLO INTERO DELL'OPERA OMNIA 4 "LA FILOSOFIA DELLA LIBERTA'" - vi invitiamo a prendervi del tempo per leggerlo e rileggerlo, per poter imprimere quanto viene espresso con forza e devozione nell'interiorità.
Il concetto dell’albero è, per il conoscere, condizionato dalla percezione dell’albero. Di fronte ad una determinata percezione io posso estrarre dal sistema generale dei concetti soltanto un ben determinato concetto. Il nesso fra concetto e percezione viene determinato indirettamente e obiettivamente, nella percezione, per mezzo del pensare. Il collegamento della percezione col suo concetto viene riconosciuto dopo l’atto percettivo, ma la correlazione è già determinata nella cosa stessa.
Diversamente si presenta il processo quando si considera la conoscenza, quando si esamina il rapporto che con essa sorge fra l’uomo e il mondo. Nelle considerazioni fin qui svolte si è fatto il tentativo di mostrare che è possibile mettere in chiaro questo rapporto volgendo su di esso la nostra imparziale osservazione. Una giusta comprensione di tale osservazione porta al convincimento che il pensare può essere direttamente contemplato, come un’entità in sé conchiusa. Chi, per spiegare il pensare come tale, trova necessario aggiungere ad esso qualcos’altro, come per esempio processi cerebrali fisici, oppure processi spirituali incoscienti nascosti dietro il pensare cosciente che viene osservato, misconosce ciò che gli dà l’osservazione obiettiva del pensare. Chi osserva il pensare vive direttamente, durante l’osservazione, in un contesto di essenza spirituale che si regge da sé. Si può dire anzi che chi vuole afferrare l’essenzialità dello spirituale nella forma, in cui a tutta prima essa si presenta all’uomo, può farlo nel pensare poggiante su se medesimo.
Nell’osservazione del pensare stesso, il concetto e la percezione, che altrimenti debbono presentarsi sempre separati, coincidono. Chi non vede questo, nei concetti elaborati sulle percezioni potrà vedere soltanto delle riproduzioni, simili ad ombre, delle percezioni stesse, e le percezioni gli rappresenteranno la vera realtà. Egli si costruirà pure un mondo metafisico sul modello del mondo da lui percepito, e lo chiamerà mondo atomico, mondo della volontà, mondo incosciente dello spirito e così via, a seconda del suo modo di vedere. E gli sfuggirà che con tutto questo egli si è soltanto costruito un mondo metafisico in modo ipotetico, secondo il modello del suo mondo di percezione. Chi invece vede e intende ciò che di peculiare al pensare gli sta dinanzi, riconoscerà che nella percezione si trova soltanto una parte della realtà, e che l’altra parte appartenente a questa, sola capace di farla apparire come realtà piena, viene sperimentata nella compenetrazione pensante della percezione. In ciò che sorge nella coscienza come pensare, egli non vedrà la riproduzione, simile ad un’ombra, di una realtà, bensì un’essenzialità spirituale poggiata su sé stessa. E di questa potrà dire che essa gli diventa presente nella coscienza per intuizione. Intuizione è l’esperienza cosciente e scorrente nel puro spirituale di un contenuto puramente spirituale. Solo attraverso un’intuizione si può cogliere l’entità del pensare.
Soltanto quando, per virtù dell’osservazione obiettiva, ci si è indotti a riconoscere questa verità sulla natura intuitiva del pensare, riesce possibile di avere via libera per una visione dell’organizzazione corporeo-animica dell’uomo. Si riconosce che questa organizzazione non può agire sull'essere del pensiero. In un primo tempo, lo stato manifesto dei fatti sembra contraddire a ciò: il pensare umano non sorge, per l’esperienza comune, altro che dentro e attraverso quell’organizzazione. Il sorgere del pensare è un fatto che s’impone così fortemente che soltanto chi abbia riconosciuto come nessun elemento dell’organismo umano intervenga in ciò che vi è di essenziale nel pensare, è in grado di intenderne il vero significato. A costui però non può neppure più sfuggire quanto peculiarmente sia foggiato il rapporto fra l’organismo umano e il pensare. Quello, infatti, non influisce assolutamente sull’essenza del pensare, ma anzi si ritrae quando sorge l’attività del pensare; sospende la propria attività, lascia il campo libero; e sul campo, così divenuto libero, sorge il pensare. All’essenzialità che opera nel pensare incombe un duplice compito: in primo luogo respinge l’organismo umano nella sua attività propria, e in secondo luogo ne prende il posto. Infatti anche la prima operazione, quella di spingere indietro l’organismo corporeo, è conseguenza dell’attività del pensare, e precisamente di quella parte di essa che prepara la comparsa del pensare. Da questo si vede in qual senso il pensare trovi la propria controimmagine nell'organismo corporeo. E se si vede ciò, non si potrà più misconoscere l’importanza di questa controimmagine per il pensare stesso. Le orme di chi cammina sopra un terreno molle s’imprimono su questo terreno, e nessuno sarà tentato di dire che quelle forme siano state provocate da forze del terreno, agenti dal basso verso l’alto; non si attribuirà a queste forze nessun concorso nella produzione delle orme. Chi abbia osservato obiettivamente l’essenza del pensare, attribuirà altrettanto poco una partecipazione in tale essenza da parte di quelle tracce che si producono nell'organismo corporeo per il fatto che il pensare prepara la propria comparsa per il tramite del corpo.
Ma qui sorge una domanda quanto mai significativa. Se l’organismo umano non ha parte alcuna nel determinare dell’essere del pensare, quale importanza ha quest’organismo entro il complesso dell’entità umana? Orbene, quanto succede in questa organizzazione per opera del pensare non ha certo nulla a che fare con l’essere del pensare stesso, bensì col sorgere della coscienza dell’io da questo pensare. Nell’essere proprio del pensare risiede, sì, il vero «io», ma non la coscienza dell’io. Chi osservi il pensare in modo obiettivo vede ciò chiaramente. L’«io» va cercato entro il pensare; la «coscienza dell’io» sorge per il fatto che nella coscienza generale si imprimono le orme dell’attività del pensare, nel senso sopra indicato. (La coscienza dell’io nasce dunque per virtù dell’organizzazione corporea. Non si creda però che la coscienza dell’io, una volta che sia sorta, continui a dipendere dall’organismo del corpo. Dopo sorta, essa viene accolta dal pensare, di cui condivide da allora in poi l’essenza spirituale).
La «coscienza dell’io» è costruita sull’organizzazione umana. Da questa defluiscono le azioni della volontà. Nel senso di quanto fin qui si è esposto, una visione del rapporto fra pensare, io cosciente e attività della volontà, si potrà conseguire solamente se prima si sarà osservato come l’atto volitivo proceda dall’organizzazione umana.
Per il singolo atto volitivo sono da considerarsi il motivo e la molla spingente. Il motivo è un fattore concettuale o rappresentativo; la molla spingente è il fattore del volere, direttamente condizionato nell’organismo umano. Il fattore concettuale o motivo è la causa determinante momentanea del volere; la molla spingente è la causa determinante permanente nell’individuo. Motivo del volere può essere un concetto puro o un concetto avente un determinato rapporto con la percezione, cioè una rappresentazione. Concetti generali e individuali (rappresentazioni) diventano motivi del volere, in quanto agiscono sull’individuo umano e lo determinano all’azione in una certa direzione. Un medesimo concetto, e rispettivamente una medesima rappresentazione, agiscono però diversamente su individui diversi. Spingono uomini diversi ad azioni diverse. Il volere non è quindi semplicemente un risultato del concetto o della rappresentazione, ma anche dell’indole individuale dell’uomo. Chiameremo questa indole individuale - possiamo a questo proposito seguire Eduard von Hartmann - la disposizione caratterologica. Il modo in cui concetto e rappresentazione agiscono sulla disposizione caratterologica dell’uomo, dà alla sua vita una determinata impronta morale o etica.
La disposizione caratterologica viene formata dal contenuto di vita più o meno permanente del nostro soggetto, cioè dal nostro contenuto di rappresentazioni e di sentimenti. Che una rappresentazione, la quale mi si presenti in un dato momento, mi spinga o no ad un atto volitivo, ciò dipende dal rapporto che essa ha col restante mio contenuto rappresentativo, ed anche con le mie peculiarità di sentimento. Ma il mio contenuto rappresentativo è a sua volta condizionato dalla somma di quei concetti che, nel corso della mia vita individuale, sono venuti a contatto con percezioni, sono cioè divenuti rappresentazioni. Ma tale somma dipende a sua volta dalla mia maggiore o minore capacità d’intuizione e dalla cerchia delle mie osservazioni, cioè dal fattore soggettivo e dal fattore oggettivo delle esperienze, dall’interiore determinatezza e dall’ambiente della mia vita. In modo del tutto particolare la mia disposizione caratterologica è determinata dalla mia vita di sentimento. A seconda che io, per una determinata rappresentazione o concetto, sentirò piacere o dolore, ne farò motivo di una mia azione oppure no. Questi sono gli elementi che entrano in giuoco in un atto volitivo. La rappresentazione immediatamente presente o il concetto, che divengono motivo, determinano la mèta, lo scopo del mio volere; la mia disposizione caratterologica mi determina a dirigere la mia attività verso quella mèta. La rappresentazione di fare una passeggiata nella prossima mezz’ora determina lo scopo del mio agire; ma questa rappresentazione viene elevata a motivo del volere solo se coincide con un’appropriata disposizione caratterologica, cioè se, attraverso le precedenti esperienze della mia vita, si sono in qualche modo formate in me le rappresentazioni della convenienza del passeggiare e del valore della salute, ed infine se alla rappresentazione del passeggiare si collega in me il sentimento del piacere.
Dobbiamo quindi distinguere:
le possibili disposizioni soggettive che sono atte ad elevare a motivi certi concetti e rappresentazioni;
i possibili concetti e rappresentazioni che sono in grado di influenzare la mia disposizione caratterologica in modo da provocare un atto volitivo. Quelle costituiscono le molle, questi gli scopi della moralità.
Possiamo trovare le molle della moralità indagando di quali elementi si componga la vita individuale.
Il primo gradino della vita individuale è il percepire, e precisamente il percepire dei sensi. Siamo qui in quella regione della nostra vita individuale in cui la percezione, senza intervento di sentimenti e di concetti, si trasforma immediatamente in volere. La molla dell’uomo, in questo caso, si può designare senz’altro come impulso. La soddisfazione dei nostri bisogni inferiori puramente animali (fame, rapporti sessuali, ecc.) si compie in questo modo. La caratteristica della vita di impulso consiste nell’immediatezza con cui la percezione singola scatena la volontà. Questo modo di determinazione del volere, che originariamente è proprio soltanto della vita dei sensi inferiori, può però venir esteso anche alle percezioni dei sensi superiori. Alla percezione di qualche avvenimento del mondo esterno, senza oltre pensare e senza che alla percezione si colleghi in noi un particolare sentimento, facciamo seguire un’azione; così avviene ordinariamente nelle relazioni convenzionali con altri uomini. La molla di quest’azione si chiama tatto o gusto morale. Quanto più spesso si compirà questo immediato scatenarsi di una azione per effetto di una percezione, tanto più l’uomo si mostrerà capace di agire esclusivamente sotto l’influsso del tatto, cioè il tatto diverrà sua disposizione caratterologica.
La seconda sfera della vita umana è il sentire. Alle percezioni del mondo esterno si riannodano determinati sentimenti. Questi sentimenti possono divenire molle di azione. Quando vedo un uomo affamato, la mia compassione può diventare molla per il mio agire. Tali sentimenti sono, per esempio, il pudore, l’orgoglio, il sentimento dell’onore, l’umiltà, il pentimento, la compassione, il sentimento della vendetta o della gratitudine, il pietismo, la fedeltà, il sentimento dell’amore e quello del dovere.
Finalmente il terzo gradino della vita è quello del pensare e del rappresentare. Per pura riflessione una rappresentazione o un concetto possono divenire motivo di azione. Le rappresentazioni diventano motivi per il fatto che nel corso della vita noi colleghiamo continuamente certi scopi del volere con percezioni che, in forma più o meno modificata, ritornano sempre. Da ciò deriva che, per uomini i quali non siano del tutto privi di esperienza, con determinate percezioni sorgono sempre nella coscienza anche le rappresentazioni delle azioni che essi hanno compiuto o visto compiere in casi analoghi. Queste rappresentazioni ondeggiano davanti a loro come modelli determinanti per tutte le successive risoluzioni; divengono parti della loro disposizione caratterologica. A quest’altro tipo di molla del volere possiamo dare il nome di esperienza pratica. L’esperienza pratica si trasforma gradualmente nel puro «agire con tatto». Questo si verifica quando determinate immagini tipiche di azioni si sono così strettamente unite nella nostra coscienza con rappresentazioni di determinate situazioni della vita, che in dati casi noi passiamo immediatamente dalla percezione al volere, saltando al di là di ogni riflessione fondata sull’esperienza.
Il gradino più alto della vita individuale è il pensare concettuale puro, senza riguardo a un determinato contenuto percettivo. Noi determiniamo il contenuto di un concetto per pura intuizione, estraendolo dalla sfera ideale. Un simile concetto non contiene quindi nulla, all’inizio, che si riferisca a percezioni determinate. Quando arriviamo al volere sotto l’influenza di un concetto riferentesi ad una percezione, cioè di una rappresentazione, allora è questa percezione che ci determina attraverso il pensare concettuale. Ma quando agiamo sotto l’influenza di intuizioni, la molla del nostro agire è il pensare puro. Poiché in filosofia si ha l’abitudine di chiamare ragione la pura facoltà del pensare, così è giustificato di chiamare ragione pratica la molla morale e caratteristica di questo gradino. Di questa molla del volere ha trattato, più chiaramente di tutti, Kreyenbùhl (Philosophische Monatshefte, voi. XVIII, fase. 3). Io considero l’articolo da lui scritto su questo argomento come una delle più importanti produzioni della filosofia contemporanea, e più precisamente dell’etica. Kreyenbùhl chiama «a priori pratico» la molla di cui parliamo, vale a dire un impulso all’azione derivante immediatamente dalla mia intuizione.
È chiaro che un simile impulso, nel senso stretto della parola, non si può più calcolare come appartenente al campo delle disposizioni caratterologiche. Infatti ciò che qui agisce come molla non è più qualcosa di veramente individuale in me, ma è il contenuto ideale e, di conseguenza, universale, della mia intuizione. Non appena considero la legittimità di questo contenuto come base e punto di partenza di un’azione, io entro nel campo del volere, ed è indifferente se il concetto esisteva già da tempo in me o se è sorto nella mia coscienza solo immediatamente prima dell’azione, è cioè indifferente se era già presente in me come disposizione oppure no. Ad un vero atto volitivo si perviene soltanto quando un impulso istantaneo all’azione, in forma di un concetto o di una rappresentazione, agisce sulla disposizione caratterologica. Un tale impulso diviene allora un motivo di volizione.
I motivi della moralità sono rappresentazioni e concetti. Vi sono moralisti che vedono anche nel sentimento un motivo della moralità, e per esempio ritengono che scopo dell’azione morale sia la produzione della massima quantità possibile di piacere nell’individuo che agisce. Il piacere in sé non può però diventare un motivo; lo può soltanto un piacere rappresentato. La rappresentazione di un futuro sentimento, non però il sentimento stesso, può agire sulla mia disposizione caratterologica. Infatti il sentimento stesso, nel momento dell’azione, non esiste ancora, ma deve essere suscitato appunto mediante l’azione.
La rappresentazione del proprio e dall’altrui bene può però giustamente essere considerata come un motivo del volere. Il principio di ottenere con le proprie azioni la massima quantità possibile di piacere proprio, vale a dire di raggiungere la felicità individuale, si chiama egoismo. Si cerca di raggiungere la felicità individuale o col pensare solo al proprio bene, senza riguardo alcuno, e questo anche a spese della felicità di altri individui (egoismo puro), oppure col procurare il bene altrui perché dalle altre persone felici ci si ripromette indirettamente un’influenza benefica sulla propria persona o perché dal danno altrui si teme vengano minacciati anche gli interessi propri (morale prudenziale). Il contenuto particolare dei principii morali egoistici dipenderà poi dalla rappresentazione che l’uomo si farà della propria o dell’altrui felicità. A seconda di ciò che a ciascuno apparirà come un bene della vita (agiatezza, speranza di felicità, liberazione da diversi mali, e così via), egli determinerà il contenuto della sua aspirazione egoistica.
Un ulteriore motivo è da vedersi nel contenuto puramente concettuale di un’azione. Questo contenuto non si ricollega (come la rappresentazione del proprio piacere) soltanto con la singola azione, ma con la giustificazione di un’azione sulla base di un sistema di principii morali. Questi principii possono regolare la vita morale in forma di concetti astratti, senza che il singolo si preoccupi dell’origine dei concetti. Allora noi sentiamo semplicemente come necessità morale la sottomissione al concetto morale che ondeggia come comandamento al di sopra del nostro agire. Lasciamo la giustificazione di tale necessità a chi esige la sottomissione morale, cioè all’autorità morale che noi riconosciamo (capo di famiglia, stato, costume sociale, autorità ecclesiastica, rivelazione divina). Una particolare forma di questi principii morali è quella in cui il comandamento non viene proclamato da una autorità esterna, ma dal nostro intimo (autonomia morale). Sentiamo allora nel nostro intimo la voce alla quale dobbiamo sottometterci. Questa voce si esprime nella coscienza.
Si verifica un progresso morale quando l’uomo non eleva a motivo del suo agire semplicemente il comandamento di un’autorità esterna o di quella interna, ma quando si sforza di riconoscere la ragione per cui una certa massima deve valergli come motivo. Tale progresso consiste nel passare dalla morale autoritaria all’azione fondata sul giudizio morale. L’uomo giunto a questo gradino della moralità studierà le necessità della vita morale, e dalla conoscenza di queste si lascerà determinare alle sue azioni. Tali necessità sono:
il massimo bene possibile della collettività umana, puramente per il bene in se stesso;
il progresso della civiltà, ossia l’evoluzione morale dell’umanità verso una perfezione sempre maggiore;
la realizzazione di fini morali individuali concepiti per pura intuizione.
Il massimo bene possibile della collettività umana sarà naturalmente concepito in modo diverso da uomini diversi. Il principio suesposto non si riferisce ad una determinata rappresentazione di questo bene, ma significa che ogni singolo uomo, il quale riconosca tale principio, si sforza di fare quello che, secondo il suo giudizio, promuove al massimo il bene della collettività umana.
Il progresso della civiltà, per chi ricollega ai beni della civiltà un sentimento di piacere, si presenta come un caso speciale del principio morale precedente. Egli dovrà però tener conto della scomparsa e della distruzione di molte cose che pure contribuiscono al bene dell’umanità. D’altra parte è possibile che qualcuno veda nel progresso della civiltà una necessità morale, indipendentemente dal sentimento di piacere ad esso legato. Per costui tale progresso è quindi un altro principio morale, accanto al precedente.
Tanto la massima del bene collettivo, quanto quella del progresso della civiltà, riposano sulla rappresentazione, cioè sul rapporto che si attribuisce al contenuto delle idee morali rispetto a determinate esperienze (percezioni). Il più alto principio morale che si possa pensare è però quello che non contiene in precedenza alcun rapporto simile, ma che sgorga dalla sorgente della pura intuizione, e che soltanto dopo ricerca il rapporto con la percezione (con la vita). La determinazione di quello che si deve volere parte qui da un’istanza diversa da quella dei casi precedenti. Chi ubbidisce al principio morale del bene collettivo, per tutte le sue azioni si domanderà prima quale contributo portino i suoi ideali a tale bene collettivo. Chi segue il principio morale del progresso della civiltà farà altrettanto. Ma vi è qualcosa di più alto, che non parte nel caso singolo da un determinato e singolo scopo morale, bensì dà un certo valore a tutte le massime morali, e in ogni dato caso domanda sempre se per quel caso sia più importante un principio morale oppure l’altro. Può avvenire che qualcuno, in date condizioni, ritenga giusto ed elevi a motivo della sua azione il favorire il progresso della civiltà, in altre condizioni il favorire il bene collettivo, in altre ancora il favorire il bene proprio. Ma solamente quando tutte le altre ragioni di determinazione passano in seconda linea, viene in prima linea l’intuizione concettuale stessa. Tutti gli altri motivi allora scompaiono dalla posizione dominante, e solo il contenuto ideale dell’azione agisce come motivo di essa.
Fra i gradi della disposizione caratterologica abbiamo designato come il più alto quello che agisce quale pensare puro, quale ragione pratica. Fra i motivi abbiamo ora designato come il più alto l’intuizione concettuale. Ma a più precisa riflessione risulta però subito che, a questo grado della moralità, molla e motivo coincidono, che cioè né una disposizione caratterologica predeterminata, né un principio morale esterno, assunto come norma, influiscono sul nostro agire. L’azione non è fatta su stampo o modello, cioè non è eseguita secondo una qualsiasi regola, e neppure è compiuta dall’uomo automaticamente per una spinta esterna, ma è interamente determinata dal suo contenuto ideale.
Una simile azione ha come presupposto la capacità delle intuizioni morali. A chi manca la capacità di intuire per ogni singolo caso la particolare massima morale, non sarà neppure possibile di arrivare mai alla vera volontà individuale.
Il contrario assoluto di questo principio morale è quello kantiano: «Agisci in modo che le norme del tuo agire possano valere per tutti gli uomini». Tale proposizione è la morte di ogni impulso individuale all’azione. Non il modo in cui tutti gli uomini agirebbero mi deve esser di norma, ma il modo in cui io ho da agire nel caso individuale.
Una critica superficiale potrebbe obiettare a queste considerazioni: «Come può l’azione essere individualmente improntata al caso particolare e alla particolare situazione, ed essere nello stesso tempo determinata in modo puramente ideale per via d’intuizione?». Questa obiezione si basa sopra una confusione fra motivo morale e contenuto percettivo dell’azione. Quest’ultimo può essere motivo, e lo è, per esempio nel progresso della civiltà, nelle azioni di origine egoistica, e così via, ma non lo è nelle azioni fondate sulla pura intuizione morale. Il mio io rivolge naturalmente lo sguardo su questo contenuto percettivo, ma non se ne lascia determinare. Tale contenuto è utilizzato solo per formarsi un concetto conoscitivo; l’io, però, non ricava dall’oggetto il relativo concetto morale. Il concetto conoscitivo corrispondente ad una determinata situazione, alla quale io mi trovi davanti, è nello stesso tempo un concetto morale soltanto se io mi trovo nel punto di vista di un determinato principio morale. Se io dovessi stare soltanto sul terreno morale dell’evoluzione della civiltà, allora andrei per il mondo con un itinerario obbligato. Da ogni avvenimento che percepisco e che mi può occupare, scaturisce subito un dovere morale per me: quello di portare il mio pur piccolo contributo a che quell’avvenimento sia messo al servizio dell’evoluzione della civiltà. Oltre al concetto, che mi svela le naturali connessioni di un avvenimento o di una cosa, l’avvenimento o la cosa portano appesa anche un’etichetta morale che per me, essere morale, contiene un’indicazione etica del modo in cui mi devo comportare. Questa etichetta morale è giustificata nel suo campo, ma, quando si arriva a un punto di vista piu alto, viene a coincidere con l’idea che sorge in me di fronte al caso concreto.
Gli uomini sono diversi fra loro per quanto riguarda il potere d’intuizione. In uno le idee pullulano, un altro le acquista solo faticosamente. Le situazioni in cui gli uomini vivono, e che formano la scena delle loro azioni, non sono meno diverse. La maniera di agire d’un uomo dipenderà quindi dal modo in cui la sua capacità d’intuizione reagirà di fronte ad una determinata situazione. La somma delle idee attive in noi, il contenuto reale delle nostre intuizioni, si realizza dall’insieme di tutto ciò che, dell’intera universalità del mondo delle idee, ha preso in ogni uomo una forma individuale. Per quel tanto che questo contenuto intuitivo si ripercuote sull’agire, esso costituisce la potenzialità morale dell’individuo. Lasciare svolgere tale potenzialità è la molla morale più alta e nello stesso tempo il più alto motivo di colui che capisce come tutti gli altri principii morali convergano, in definitiva, in questa potenzialità. Questo punto di vista può venir chiamato individualismo etico.
Ciò che è importante di un’azione determinata intuitivamente, in ogni caso concreto, è il ritrovamento della intuizione corrispondente, del tutto individuale. A questo gradino della moralità non si può più parlare di concetti morali generali (norme, leggi), se non in quanto essi risultino da generalizzazioni degli impulsi individuali. Norme generali presuppongono sempre fatti concreti da cui esse possono essere derivate. Ma, mediante l’agire umano, dei fatti vengono anzitutto creati.
Quando noi ricerchiamo nell’agire degli individui, dei popoli, delle epoche, quel che vi è di conforme alle leggi (di concettuale) otteniamo un’etica, non però come scienza di norme morali, bensì come dottrina naturale della moralità. Soltanto le leggi ottenute per tale via si comportano, rispetto all’agire umano, come le leggi naturali si comportano rispetto ad un particolare fenomeno. Ma non si identificano affatto con gli impulsi che noi poniamo a base del nostro agire. Se si vuol sapere in che modo l’azione di un uomo scaturisca dalla sua volontà morale, bisogna guardare in primo luogo al rapporto fra questa volontà e l’azione stessa. Conviene da principio prendere in considerazione delle azioni nelle quali questo rapporto sia la cosa determinante. Dalla riflessione posteriore, mia o di un altro, sopra un’azione da me compiuta, può emergere quali massime morali siano entrate in giuoco nell’azione stessa. Mentre agisco, mi muove la massima morale in quanto essa può vivere intuitivamente in me; essa è collegata con l’amore per l’oggetto che io voglio realizzare per mezzo della mia azione. Io non domando a nessun uomo, e neppure ad alcun codice morale, se io debba compiere quell’azione, ma la compio appena ne ho concepito l’idea. Solo per questo essa è un’azione mia.
Se uno agisce soltanto perché riconosce determinate norme morali, la sua azione è il risultato dei principii che si trovano nel suo codice morale. Egli è semplicemente un esecutore, un automa di ordine superiore. Gettate nella sua coscienza un impulso all’azione, e subito l’ingranaggio dei suoi principii morali si mette in moto e svolge regolarmente il suo corso per compiere un’azione cristiana, umanitaria, altruistica, oppure un’azione per il progresso della civiltà. Solamente quando seguo il mio amore per l’oggetto sono io stesso che agisco. Su questo gradino della moralità io non riconosco alcun signore al di sopra di me, non l’autorità esterna, non una cosiddetta voce interiore. Non riconosco alcun principio esterno del mio agire perché ho trovato in me stesso la causa dell’azione, l’amore per l’azione. Non esamino razionalmente se la mia azione sia buona o cattiva: la compio perché l'amo. Essa sarà «buona» se la mia intuizione immersa nell’amore si trova situata nel giusto modo entro il connesso mondiale da sperimentarsi intuitivamente; nel caso contrario sarà «cattiva». E neppure mi domando come agirebbe un altro uomo nel mio caso, ma agisco come io, quale particolare individualità, mi vedo spinto a volere. Non l’uso comune, non il costume generale, non una massima umana generale, e nemmeno una norma morale mi guida in modo immediato, ma il mio amore per quell’azione. Non sento alcuna costrizione: non la costrizione della natura, che mi guida nei suoi impulsi, non la costrizione del comandamento morale. Io voglio semplicemente estrinsecare quello che è in me.
Di fronte a queste considerazioni, i difensori delle norme morali generali potrebbero forse obiettare quanto segue: «Se ciascuno ha il diritto di vivere a suo modo e di fare ciò che gli piace, non c’è più differenza fra buona azione e delitto; qualsiasi birbanteria che sia in me ha uguale titolo ad estrinsecarsi che l’intenzione di servire al miglioramento universale. Per me, come uomo morale, non deve valere di norma la circostanza che io abbia preso in considerazione un’azione seguendo un’idea, ma l’esame per vedere se essa è buona o cattiva. Soltanto nel primo caso la compirò».
A tale obiezione, ovvia, ma proveniente soltanto da incomprensione di quanto qui si è detto, la mia risposta è questa: chi vuol conoscere la natura del volere umano, deve distinguere tra la via che conduce il volere fino ad un determinato grado della sua evoluzione, e la peculiare forma che il volere assume quando si avvicina a questa mèta.
Sulla via verso questa mèta le norme hanno legittimamente la loro parte. La mèta consiste nel raggiungimento di scopi morali concepiti in modo puramente intuitivo. L’uomo li consegue nella misura in cui ha la capacità di elevarsi, in generale, all’intuitivo contenuto ideale del mondo. Nel volere singolo, oltre il motivo e la molla, per lo più altro ancora si mescola a quegli scopi. L’intuizione, però, può avere ugualmente, nella volontà umana, un valore determinante o concomitante alla determinazione. Quello che si deve, si fa; si diviene il campo sul quale il dovere diventa azione; azione propria è quella che si lascia scaturire come tale da noi stessi. Qui l’impulso può essere soltanto assolutamente individuale. E, in verità, solo un atto volitivo sgorgante dall’intuizione può essere un atto individuale. Che l’azione di un delinquente, che il male venga chiamato un’estrinsecazione dell’individualità nello stesso senso di un atto che prende corpo dall’intuizione pura, è possibile solo quando gli impulsi ciechi vengano ascritti all’individualità dell’uomo. Ma l’impulso cieco che spinge al delitto non nasce dall’intuizione e non appartiene a ciò che è individuale nell’uomo, bensì a quanto in lui vi è di più generale, e da cui l’uomo si trae fuori col lavoro del suo elemento individuale. L’individuale in me non è il mio organismo coi suoi impulsi e i suoi sentimenti, ma il mondo unitario delle idee che risplende in questo organismo.
I miei impulsi, i miei istinti, le mie passioni albergano in me soltanto per il fatto che io appartengo alla specie generale uomo; la circostanza che in questi impulsi, in queste passioni e sentimenti si estrinseca un elemento ideale in un modo particolare, crea la mia individualità. Per i miei istinti e impulsi io sono un uomo come se ne trovano dodici per dozzina; per la particolare forma dell'idea attraverso la quale, entro la dozzina, mi designo come un io, sono un individuo. Per la differenza della mia natura animale, solo un essere a me estraneo potrebbe distinguermi dagli altri; per il mio pensare, cioè per l’attivo riconoscimento dell’elemento ideale che vive nel mio organismo, mi distinguo io stesso dagli altri. Dell’azione del delinquente non si può affatto dire che derivi dall’idea. Anzi, è proprio la caratteristica delle azioni delittuose di derivare dagli elementi extraideali dell’uomo.
Un’azione viene sentita come libera in quanto la sua causa provenga dalla parte ideale del mio essere individuale; ogni altra parte di un’azione, che venga eseguita sia per forza di natura, sia per costrizione di una norma morale, viene sentita come non libera.
Libero è l’uomo quando in ogni momento della sua vita è in grado di ubbidire a se stesso. Un’azione morale è una azione mia soltanto se può, in questo senso, dirsi libera. Qui, in un primo tempo, si considerano i presupposti secondo i quali un’azione voluta viene sentita come libera; in quel che segue si vedrà come questa idea di libertà, concepita in modo puramente etico, si attivi nell’entità umana.
L’azione secondo libertà non esclude ma include le leggi morali: sta solo più in alto rispetto a quell’azione che è dettata unicamente da tali leggi. Perché la mia azione dovrebbe servire allora meno al bene comune se io l’ho compiuta per amore, che non se l’ho compiuta soltanto perché sento come un dovere il servire al bene comune? Il mero concetto di dovere esclude la libertà perché non vuole riconoscere l’elemento individuale, esigendone invece la sottomissione ad una norma generale. La libertà dell’agire è concepibile solo dal punto di vista deH’individualismo etico.
«Ma come è possibile una convivenza fra gli uomini se ciascuno si sforza soltanto di far valere la sua individualità?».
Ecco un’altra obiezione del moralismo mal compreso. Esso crede che una comunità di uomini sia possibile solo quando essi siano tutti riuniti da un ordine morale collettivo stabilito. Questo moralismo non capisce l’unicità del mondo delle idee. Non capisce che il mondo delle idee attivo in me non è diverso da quello attivo nel mio simile. Questa unicità è certamente soltanto un risultato dell’esperienza del mondo. Ma deve essere così. Perché se fosse possibile riconoscerla altrimenti che per via di osservazione, non sarebbe valida, nel suo ambito, l’esperienza individuale, ma la norma generale. L’individualità è possibile soltanto se ogni essere individuale sa dell’altro solamente per osservazione individuale. La differenza fra me e il mio simile non consiste per nulla nel fatto che noi viviamo in due mondi spirituali completamente diversi, ma nel fatto che, da un comune mondo d’idee, egli riceve intuizioni diverse dalle mie. Egli vuole esplicare le sue intuizioni, io le mie. Se entrambi veramente attingiamo dall’idea, senza seguire alcun impulso esterno (fisico o spirituale), possiamo allora incontrarci unicamente negli stessi sforzi, nelle stesse intenzioni. Un malinteso morale, un urto, è escluso fra uomini moralmente liberi. Solo l’uomo moralmente non libero, che segue l’impulso naturale o il comandamento del dovere, respinge il suo prossimo, quando questi non segue lo stesso istinto o lo stesso comandamento.
Vivere nell’amore per l’azione e lasciar vivere nella comprensione della volontà altrui è la massima fondamentale degli uomini liberi.
Essi non conoscono nessun altro dovere fuorché quello con cui il loro volere si mette in intuitivo accordo; il loro patrimonio di idee suggerirà poi ad essi il modo in cui vorranno in un particolare caso.
Se non risiedesse nell’entità umana la causa prima della tolleranza, questa non vi si potrebbe inoculare per mezzo di nessuna legge esterna! Solo perché gli individui umani sono di un unico spirito, possono vivere anche gli uni vicini agli altri. Il libero vive nella fiducia che l’altro libero appartiene con lui ad uno stesso mondo spirituale e deve incontrarsi con lui nelle stesse intenzioni. Il libero non pretende dal suo simile una concordanza, ma se l’attende perché essa è insita nella natura umana. Con ciò non si è inteso accennare alle necessità imposte da questo o quell’ordinamento esteriore, ma alla mentalità, alla disposizione d'animo, per cui l’uomo nell’esperienza che egli fa di se stesso in mezzo ai suoi simili da lui stimati, si adegua più di ogni altro alla dignità umana.
Molti a questo punto osserveranno: «Il concetto dell’uomo libero che tu tracci è una chimera, non si realizza in nessun luogo; noi però abbiamo da fare con uomini reali, e nella loro moralità c’è da sperare soltanto se essi ubbidiscono ad un comandamento, se concepiscono la loro missione morale come un dovere, e non seguono liberamente le loro inclinazioni e il loro amore». Non ne dubito affatto. Soltanto un cieco lo potrebbe. Ma allora, se questa dovesse essere l'estrema nostra concezione in proposito, bando ad ogni finzione di moralità! Dite allora semplicemente: «La natura umana deve essere costretta alle sue azioni, finché non è libera». Se la non-libertà viene imposta con mezzi fisici o con leggi morali, se l’uomo è non-libero perché segue senza misura l’impulso del sesso o perché è avviluppato dai legami della moralità convenzionale, da un certo punto di vista è del tutto indifferente. Non si affermi però che un simile uomo possa con diritto chiamare sua un’azione a cui è spinto da una forza estranea. Ma dal mezzo di quest’ordine forzato si elevano gli spiriti liberi, che trovano sé stessi entro gli impacci del costume, dell’imposizione legale, della pratica religiosa, e così via. Liberi sono in quanto seguono solo sé stessi, non liberi in quanto si sottomettono. Chi di noi può dire di essere in tutte le sue azioni veramente libero? Ma in ciascuno di noi alberga un’entità più profonda nella quale si esprime l’uomo libero.
La nostra vita si compone di azioni libere e non libere. Ma non possiamo pensare fino in fondo il concetto dell’uomo, senza arrivare allo spirito libero come all’espressione più pura della natura umana.
Noi siamo veri uomini solo in quanto siamo liberi.
«Questo è un ideale», diranno molti. Senza dubbio, ma un ideale che nella nostra entità si fa strada come elemento reale verso la superficie. Non è un ideale pensato o sognato, ma un ideale che ha vita e che si annunzia chiaramente, pur nella forma più imperfetta. Se l’uomo fosse esclusivamente un essere naturale, sarebbe assurdo andare alla ricerca di ideali, cioè di idee momentaneamente inattive, la cui realizzazione è però richiesta. Per le cose del mondo esterno, l’idea è determinata mediante la percezione: noi abbiamo fatto la nostra parte quando abbiamo riconosciuto il nesso fra idea e percezione. Quanto all’uomo, le cose non stanno cosi. Il complesso della sua esistenza non è determinato senza lui stesso: il suo vero concetto come uomo morale (spirito libero) non è in precedenza unito obiettivamente con l’immagine percettiva «uomo», in modo da venire poi, per mezzo della conoscenza, semplicemente verificato. Per propria attività l’uomo deve riunire il suo concetto con la percezione «uomo». Concetto e percezione qui coincidono solo quando l’uomo stesso li porta a coincidere. Ma egli può far ciò soltanto quando ha trovato il concetto dello spirito libero, cioè il concetto suo proprio.
Nel mondo oggettivo ci è segnata dalla nostra organizzazione una linea di separazione fra percezione e concetto, e la conoscenza supera il confine. Nella natura soggettiva tale confine esiste ugualmente; e l’uomo lo supera nel corso della sua evoluzione quando, nella sua manifestazione esteriore, porta ad espressione il concetto di se stesso. Così, tanto la vita intellettuale dell’uomo quanto la sua vita morale ci riportano alla duplice natura dell’uomo stesso: alla percezione (l’esperienza immediata) e al pensiero. La vita intellettuale supera tale natura dualistica per mezzo della conoscenza, quella morale per mezzo dell’effettiva realizzazione dello spirito libero. Ogni essere ha il suo concetto innato (la legge del suo esistere e del suo agire); ma nelle cose esterne questo è inseparabilmente congiunto con la percezione, e solamente dentro il nostro organismo spirituale esso ne è separato. Nell’uomo stesso, concetto e percezione sono dapprima effettivamente separati, per venire poi altrettanto effettivamente da esso riuniti. Si può obiettare: «Alla percezione dell’uomo, come ad ogni altra cosa, corrisponde in ogni momento della sua vita un determinato concetto. Io posso formarmi il concetto di un comune uomo tipico e posso pure avere un tale uomo, dato come percezione; se a questo aggiungo anche il concetto dello spirito libero, vengo ad avere due concetti per uno stesso oggetto».
Ma ciò è pensato in modo unilaterale. Come oggetto della percezione di me stesso io sono sottoposto ad un cambiamento continuo. Da bambino ero in un modo, da giovinetto in un altro modo, da uomo in un modo ancora diverso. Anzi, in ogni istante la mia immagine percettiva è diversa da quella dell’istante precedente. Queste modificazioni possono avvenire in maniera che in esse si esprima sempre lo stesso uomo tipico, oppure che esse rappresentino l’estrinsecazione dello spirito libero. A tali modificazioni è sottoposto l’oggetto di percezione costituito dal mio agire.
Nell’oggetto di percezione «uomo» vi è, data, la possibilità di trasformarsi, come nel seme vegetale vi è, data, la possibilità di divenire pianta sviluppata. La pianta si trasformerà per virtù delle leggi oggettive che in lei risiedono; l’uomo rimane nel suo stato incompiuto, se non afferra in se stesso la materia della trasformazione e non si trasforma per forza propria. La natura fa dell’uomo soltanto un essere naturale; la società ne fa un essere che agisce secondo date leggi; ma un essere libero egli può farsi solo da se stesso. La natura scioglie i propri vincoli attorno all’uomo a un certo stadio del suo sviluppo; la società porta questo sviluppo fino ad un punto più avanzato; l’ultima finitura può darsela soltanto l’uomo da se stesso.
Il punto di vista della moralità libera non afferma dunque che lo spirito libero sia l’unica forma in cui l’uomo può esistere. Vede nella libera spiritualità soltanto l’ultimo stadio dell’evoluzione dell’uomo. Con questo non vien negato che l’agire secondo norme abbia la sua giustificazione come gradino di evoluzione. Soltanto, non può venir riconosciuto come punto di vista assoluto della moralità. Lo spirito libero supera le norme nel senso che egli non sente come motivi soltanto i comandamenti, bensì dirige il suo agire secondo i propri impulsi (intuizioni).
Quando Kant dice del dovere: «Dovere! o tu, eccelso, gran nome, che non contieni in te nulla di quello che di caro porta con sé la lusinga, ma esigi sottomissione, che stabilisci una legge... davanti alla quale tutte le inclinazioni ammutoliscono, anche se in segreto ad essa si oppongono», così risponde l’uomo cosciente del suo spirito libero: «O libertà! tu, amichevole umano nome, che contieni in te tutto ciò che di moralmente caro esalta al più alto grado la mia dignità di uomo, che non mi fai servo di nessuno, che non stabilisci alcuna legge, ma attendi ciò che il mio amore morale riconoscerà da sé come legge perché, di fronte a qualsiasi legge soltanto imposta, esso non si sente libero!».
Questo è il contrasto fra moralità legale e moralità libera.
Il conformista, che vede la moralità personificata negli ordinamenti esteriori, vedrà forse nello spirito libero un uomo pericoloso. Ma ciò dipende dal fatto che il suo sguardo è ristretto ad una determinata epoca. Se egli potesse guardare al di là, dovrebbe subito accorgersi che altrettanto raramente quanto lui stesso lo spiritò libero ha necessità di trasgredire le leggi dello stato, e mai ha necessità di mettersi in reale contraddizione con esse. Infatti, le leggi degli stati sono tutte scaturite da intuizioni di spiriti liberi, come tutte le altre norme morali oggettive. Non c’è legge che si esercita per autorità di famiglia che non sia stata una volta concepita intuitivamente e stabilita come tale da un antenato; anche le leggi convenzionali della moralità furono stabilite in un primo tempo da determinati uomini; e le leggi dello stato sorgono sempre nella mente di uno statista. Questi spiriti hanno stabilito delle leggi sopra gli altri uomini, e non libero diviene soltanto chi dimentica tale origine, e fa di esse sia dei comandamenti super-umani, dei concetti di dovere morale oggettivo, indipendenti da ogni elemento umano, sia una voce imperativa della sua propria interiorità, ritenuta — in senso falsamente mistico - costrittiva. Ma chi non dimentica l’origine loro, ed in tale origine ricerca l’uomo, le considererà come facenti parte di quello stesso mondo di idee dal quale egli pure prende le sue intuizioni morali. Se crederà di averne delle migliori, cercherà di sostituirle alle esistenti; ma quando troverà che queste sono giustificate, allora agirà conformemente ad esse, come se fossero sue proprie.
Non si deve coniare la formula che l’uomo esiste per fondare, separato da lui stesso, un ordinamento morale del mondo. Chi pensasse questo starebbe, riguardo alla scienza dell’uomo, allo stesso punto in cui stava quella scienza naturale che diceva: «Il toro ha le corna per poter dare cornate». Fortunatamente i naturalisti hanno buttato via simili concetti finalistici. L’etica riesce più difficilmente a liberarsene; ma come non ci sono le corna allo scopo di poter dare cornate, ma ci sono le cornate per mezzo delle corna, così non c’è l’uomo allo scopo di fare della moralità, ma c’è la moralità per mezzo dell’uomo.
L’uomo libero agisce moralmente perché ha un’idea morale; ma non agisce con lo scopo di far sorgere, col suo agire, una moralità.
Gli individui umani, con le loro idee morali appartenenti al loro essere, sono il presupposto dell’ordinamento morale del mondo.
L’individuo umano è sorgente di tutta la moralità e centro di tutta la vita terrestre. Lo stato, la società esistono solo perché risultano conseguenze necessarie della vita individuale. Che poi lo stato e la società reagiscano a loro volta sulla vita individuale, è altrettanto comprensibile come il fatto che il cozzare per mezzo delle corna reagisce sull’ulteriore sviluppo delle corna del toro, che si atrofizzerebbero per un lungo disuso. Altrettanto dovrebbe atrofizzarsi l’individuo se egli conducesse un’esistenza isolata, fuori della comunità umana. Proprio per questo si forma l’ordinamento sociale: per reagire, di ritorno, sull’individuo in senso favorevole.
Rudolf Steiner O.O. 4 - La Filosofia della Libertà
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