Cari amici, c’è una significativa polarità fra il pensiero del Natale e quello della Pasqua. Chi è in grado di contrapporre queste due idee, delle quali abbiamo parlato spesso nel nostro ambiente, chi è capace di collegarle in modo giusto e, così facendo, di rendere interiormente vivente il loro interagire reciproco, viene indirizzato verso un’esperienza interiore che abbraccia in modo vasto gli enigmi dell’umanità.
L’idea del Natale ci fa volgere lo sguardo alla nascita. Noi sappiamo che, nascendo, la parte eterna dell’uomo entra nel mondo, dal quale viene tratta l’essenza corporea, quella sensibilmente percepibile dell’uomo. Se ci avviciniamo al pensiero del Natale da questo punto di vista, allora esso ci appare come quel pensiero che ci unisce al sovrasensibile. Oltre a tutto il resto che ci pare ovvio, il pensiero del Natale indica uno dei poli della nostra esistenza in base ai quali noi, come esseri fisico-sensibili, siamo in relazione con lo spirituale sovrasensibile. Ecco perché la nascita dell’uomo non potrà mai apparire comprensibile in tutto il suo significato se viene affrontata da una scienza che si fonda solo sull’osservazione dell’esistenza fisico-sensibile.
Al polo opposto dell’esperienza umana si trova l’idea che sta alla base della festa di Pasqua e che, nel corso dell’evoluzione occidentale, col passare del tempo è diventata sempre di più l’idea che ha preparato il modo di pensare materialistico dell’occidente. Il pensiero della Pasqua può essere afferrato, dapprima in modo piuttosto astratto, quando ci si chiarisce che l’elemento eterno, immortale dell’uomo – che quindi non può neppure nascere – la sua parte spirituale sovrasensibile, discende dai mondi dello spirito per rivestirsi della corporeità fisica umana.
Fin dall’inizio dell’esistenza fisica – l’ho mostrato dai più diversi punti di vista – l’operare dello spirito nel corpo fisico è, in verità, un orientare il corpo fisico alla morte. Col pensiero della nascita viene dato, nello stesso tempo, quello della morte. Ho già fatto notare come l’organizzazione della testa dell’uomo si possa capire solo se si riconosce come in essa sia sempre presente il morire, combattuto dalle forze vitali del rimanente organismo. Nell’istante in cui queste forze di morte – sempre presenti nella testa dell’uomo perché ne rendono possibile la natura pensante – prevalgono sull’essere perituro dell’uomo, allora subentra la morte vera e propria. Si può dire allora che l’idea della morte sia l’altro lato del pensiero della nascita. Perciò l’idea della Pasqua non può essere l’espressione del pensiero della morte.
Quando il cristianesimo antico, partendo da una concezione orientale, espresse la sua prima forma, grazie soprattutto a Paolo, esso mise in risalto non la morte di Gesù Cristo, ma la risurrezione con le decise parole: «Se Cristo non fosse risorto sarebbe vana la nostra fede». La risurrezione, cioè il trionfo sopra la morte, il superamento della morte – questo era in prima linea il pensiero pasquale, l’essenza della primigenia forma assunta dal cristianesimo ancora sotto l’influsso della sapienza orientale. Vediamo anche come, in corrispondenza di ciò, compaiono proprio in questo periodo delle immagini che ci presentano Gesù Cristo come Buon Pastore, che veglia per così dire sui destini eterni dell’uomo, il quale “dorme” nella sua esistenza temporale.
Ovunque vediamo come la cristianità delle origini sempre di nuovo fosse richiamata alle parole del Vangelo: «Colui che cercate non è qui». Dovete cercarlo nei mondi spirituali, possiamo aggiungere noi. Non dovete più cercarlo nel mondo fisico-sensibile. Se lo fate vi si potrà rispondere soltanto con le parole: «Colui che voi cercate quale essere fisico-sensibile non è più nel mondo fisico-sensibile».
L’ampia e profonda saggezza che ancora tentava, nei primi secoli cristiani, di compenetrare il Mistero del Golgota e tutto ciò che vi si ricollega, fu travolta dal materialismo occidentale. A quei tempi questo materialismo non si era ancora del tutto imposto, ma si preparava lentamente. Si potrebbe dire: i primi deboli impulsi materialistici quasi impercettibili dei primi secoli si trasformarono solo molto più tardi in ciò che è diventato quel materialismo che sempre di più pervase la civiltà occidentale.
La concezione della religione orientale si è congiunta con la concezione dello Stato sorta in occidente. Nel quarto secolo il cristianesimo diventò religione di Stato; entrò quindi in esso qualcosa che non può più essere vera religione. Giuliano l’Apostata, che non era cristiano ma era una persona religiosa, non poté aderire a ciò che era diventato il cristianesimo dopo Costantino. Vediamo come, dapprima molto debolmente ma in modo già percettibile, il materialismo occidentale produca i suoi primi effetti in seguito al congiungersi del cristianesimo con la romanità in declino. Fra questi effetti vi è quell’immagine del Cristo Gesù che non c’era né aveva posto all’inizio del cristianesimo: la raffigurazione del Cristo Gesù quale crocifisso e sofferente, dell’Uomo dei dolori, dell’uomo che si strugge in dolori per i terribili tormenti che gli vennero inflitti. Con questo era sorta una frattura nella concezione del mondo della cristianità: poiché l’immagine del Cristo crocifisso e sofferente, che da allora in poi perdurò per secoli, non permise più di afferrarlo nella sua essenza spirituale, ma consentì di percepirlo solo nella sua natura corporea. Quanto più perfettamente l’arte riuscì, nel corso delle successive epoche, a rappresentare i segni del dolore sul corpo umano del Salvatore appeso alla croce, tanto più vennero sparsi i germi di un sentire cristiano materialistico.
Il Crocifisso è l’espressione del passaggio verso il materialismo cristiano. Questo non vuol dire negare la profondità e l’importanza di ciò che l’arte ha rappresentato nei dolori del Salvatore. Ciononostante resta vero che, con questa immagine del Salvatore che si scioglie nel dolore sulla croce, ci si è distaccati da una vera e propria concezione spirituale del cristianesimo. A questa rappresentazione dell’Uomo dei dolori si unì, poi, quella del Cristo Giudice universale, che era, in verità, espressiva piuttosto di Jahvè o Geova, di un Jahvè inteso in senso giuridico. In modo grandioso lo vediamo rappresentato nella Cappella Sistina a Roma.
È proprio il medesimo spirito che ha eliminato l’immagine della tomba dalla quale si innalza trionfante il Salvatore, che assieme a questa immagine ha fatto sparire anche lo Spirito che trionfa, il Vincitore della morte, quello spirito che, nell’ottavo Concilio Ecumenico dell’anno 869 a Costantinopoli ha dichiarato che non si dovesse credere nello spirito, e che ci si dovesse rappresentare l’uomo come fatto soltanto di corpo e di anima, e che lo spirito si riducesse solo ad alcune facoltà specifiche dell’anima.
Come vediamo svanire dal Crocifisso lo spirito, e l’anima, intrisa di dolore, esprimersi nel fisico che viene a essere esteriormente rappresentato da solo – senza lo spirito che trionfa, che è vincitore e, a un tempo, custode dell’umanità – così vediamo cancellato lo spirito dall’essere dell’uomo mediante un decreto conciliare.
La celebrazione del Venerdì santo venne fusa con la festa della risurrezione, con la festa di Pasqua. Il Venerdì santo, nei tempi in cui gli uomini non erano ancora così aridamente intellettuali, era diventato una celebrazione nella quale il pensiero pasquale aveva assunto una forma sempre più egoistica. Immergersi nel dolore, sprofondare la propria anima voluttuosamente nel dolore per cercare una beatitudine dolente: questa era diventata, via via, la concezione del Venerdì santo che, invece, doveva costituire soltanto lo sfondo per l’idea della Pasqua, che sempre meno si ebbe la capacità di comprendere nella sua vera forma. Quella stessa umanità che aveva elevato a dogma di fede l’idea che l’uomo consista solo di corpo e di anima, ora richiedeva, per il proprio sentimento, un Redentore che morisse soltanto, un’immagine corrispondente ai propri dolori fisici, e avere, così, lo sfondo per sentire – anche se soltanto in modo esteriore – ciò che doveva essere sperimentato elementarmente come la coscienza della costante vittoria dello spirito vivente su ciò che accade nel corpo fisico. C’era bisogno dell’immagine del martoriato a morte per vivere, come per contrasto, il senso della Pasqua.
Si deve profondamente sentire come, in questo modo, un poco alla volta la vera visione e la vera esperienza dello spirituale si siano ritirate dalla cultura occidentale. Si guarderà quindi con ammirazione, ma anche con un senso di tragedia, a tutti i tentativi artistici di rappresentare l’Uomo dei dolori sulla Croce. Non è sufficiente, cari amici, elevarsi a ciò di cui ha bisogno il nostro tempo solo con alcuni pensieri buttati lì e con qualche sentimento che vi si intromette. Bisogna guardare con attenzione a ciò che, nella cultura occidentale, da lungo tempo è su una via sbagliata rispetto allo spirito.
Oggi è necessario che anche ciò che di più grande c’è in un certo ambito venga vissuto come qualcosa che va superato. Abbiamo bisogno, in tutta la nostra cultura occidentale, del pensiero della Pasqua, abbiamo bisogno, in altre parole, di elevarci di nuovo allo spirito. Ciò che un tempo, in modo grandioso, si è manifestato come il santo Mistero della Nascita, come Mistero Natalizio, è poi finito sommerso, nell’evolversi della nostra cultura occidentale, in quei sentimentalismi che si esprimono in tutte le poesiole sul bambinello Gesù, le quali non sono che l’altra faccia del materialismo.
Ci fu un deliziarsi voluttuoso di sentimenti sul piccolo Bimbo. Invece di sperimentare interiormente nel Natale il grandioso e possente mistero della discesa di un Essere spirituale sovrasensibile, le poesiole borghesi sul bambinello diedero il tono e la misura della festa. È una caratteristica espressione dell’evoluzione puramente intellettuale del cristianesimo il fatto che in certi suoi rappresentanti è arrivata oggi a dire: il Figlio non appartiene per nulla ai Vangeli, ma solo il Padre. Malgrado questa affermazione, costoro mantengono ancora il pensiero della Pasqua, unendolo sempre più al pensiero della morte, anche per il loro cristianesimo. Ma è caratteristico come, nella forma che ho appena indicato, la concezione del Venerdì santo sempre di più sia stata posta in primo piano nell’evoluzione moderna, mentre l’idea della risurrezione, il vero concetto della Pasqua sia sempre di più andato scemando.
Un’epoca che deve indicare all’uomo come egli debba di nuovo vivere la risurrezione del suo essere a partire dallo spirito, deve accentuare in modo particolare il pensiero della Pasqua. Abbiamo bisogno del pensiero della Pasqua, ci occorre una piena comprensione dell’idea della Pasqua! Per conseguirla è necessario chiarirci che sia l’Uomo dei dolori, sia il corrispondente Giudice universale, che sentenzia solo giuridicamente, esprimono il piombare della cultura occidentale nel materialismo.
Noi abbiamo bisogno del Cristo quale Essere sovrasensibile, di natura extraterrena che, pur tuttavia, è entrato nell’evoluzione terrestre. Dobbiamo conquistarci questo pensiero che è come il sole di tutte le rappresentazioni umane.
Come dobbiamo renderci conto che l’idea del Natale e della nascita si è impoverita a tal punto che il più grande mistero è stato ridotto a una banale esperienza sentimentale, così dobbiamo riconoscere come sia necessario sottolineare, nel pensiero della Pasqua, che nell’evoluzione umana è entrato qualcosa che non è comprensibile a partire da premesse terrene, ma lo è grazie alle premesse di un sapere spirituale, grazie alla conoscenza spirituale.
La conoscenza spirituale deve trovare la sua prima ancora nel pensiero della risurrezione. Deve riconoscere che ciò che è spiritualmente eterno anche nell’uomo non viene affetto da ciò che è fisico-corporeo. Deve vedere nel detto paolino: «Se Cristo non è risorto è vana la vostra fede», una conferma – che oggi va semplicemente conquistata in modo più cosciente – di ciò che è in fondo la vera e propria essenza del Cristo. In questo modo dobbiamo oggi richiamare all’idea della Pasqua. In questo modo il tempo nel quale rammemoriamo il pensiero pasquale diventa di nuovo una festa interiore, nella quale celebriamo in noi stessi la vittoria dello spirito sulla corporeità.
Dobbiamo pur aver davanti agli occhi il Gesù crocifisso pieno di dolori, non dovendo essere antistorici. Ma dobbiamo, al di sopra della croce, vedere il Trionfatore, non toccato né dalla nascita né dalla morte. Lui solo può elevare i nostri sguardi alle vastità eterne della vita spirituale. Solo in questo modo possiamo avvicinarci di nuovo alla vera essenza del Cristo.
L’umanità occidentale ha abbassato il Cristo al suo livello – lo ha ridotto al livello del piccolo bambino e dell’uomo vissuto come colui che muore, pieno di dolore. Ho sottolineato spesso questo fatto: un certo tempo prima del Mistero del Golgota è risuonata sulla bocca di Buddha l’affermazione che la morte sia un male, e altrettanto tempo dopo il Mistero del Golgota appare il Crocifisso, e da allora si guarda alla morte non più come a un male ma come a una realtà che, in verità, non ha esistenza. Ma questo sentimento, che proviene da una sapienza orientale ancora più profonda del buddismo cede poi all’altro, che fissa lo sguardo sull’Uomo oppresso dai dolori. Non solo coi nostri pensieri, che sono per lo più limitati, ma con l’intera gamma dei nostri sentimenti noi dobbiamo guardare al destino subito dalle concezioni umane del Mistero del Golgota nel corso dei secoli. Ci deve diventare chiaro che dobbiamo ritornare a una pura, genuina comprensione di quel Mistero.
Dobbiamo riflettere sul fatto che anche nell’antichità ebraica Jahvè non era concepito come un Giudice universale, inteso nel senso giuridico del termine. La più poderosa rappresentazione drammatica del sentimento religioso ebraico, cioè il libro che descrive le sofferenze di Giobbe, in fondo esclude il sentimento di ciò che è esteriormente giusto. Giobbe è l’uomo che sopporta, che considera come suo destino ciò che gli viene dal mondo esterno. Solo lentamente comparve il concetto giuridico del castigo vendicatore nell’ordine del mondo. Ma, in un certo senso, è un rivivere del principio di Jahvè quello che ci si presenta nell’affresco di Michelangelo che sovrasta l’altare della cappella Sistina.
Noi abbiamo invece bisogno del Cristo che possiamo cercare dentro di noi e che ci si presenta non appena lo cerchiamo nella nostra interiorità. Abbiamo bisogno del Cristo che entra nella nostra volontà, la riscalda, la infiamma affinché essa diventi piena di vigore in vista di quelle azioni che l’evoluzione dell’umanità esige da noi. Noi abbiamo bisogno non di quel Cristo che vediamo sofferente, ma di quello che aleggia sopra la croce e guarda dall’alto a ciò che sulla croce di inessenziale perisce. Abbiamo bisogno di una salda consapevolezza dell’eternità dello spirito. Non la conseguiamo se perdiamo noi stessi nella contemplazione del solo Crocifisso. Se consideriamo come quell’immagine sempre di nuovo è stata trasformata in quella di Colui che è nel dolore, che soffre, ci accorgeremo di quale forza ha raggiunto questo tipo di sentire umano. Ha distolto l’attenzione dell’umanità dalla realtà spirituale e l’ha rivolta a quella meramente fisico-terrestre. Tutto questo fu espresso, a volte, in modo grandioso. Ma coloro, come Goethe, i quali avevano sentito la necessità che la nostra civiltà fosse di nuovo compenetrata di spirito, non poterono far propria quella tendenza. Goethe ha più volte espresso il pensiero che il Salvatore crocifisso non porta veramente a espressione ciò che egli sentiva essere l’essenziale del cristianesimo: l’elevazione dell’uomo allo spirituale.
È necessaria la trasformazione sia dell’atmosfera del Venerdì santo che di quella pasquale. La prima deve assumere una forma che comprenda in sé la contemplazione del Gesù morente, e che sa: questo non è che l’altro lato del nascere, e non comprende la nascita pienamente chi non vi scorge anche il morire. Chi riconosca che nella tristezza mortale del Venerdì santo si manifesta soltanto un lato dell’umano, il cui polo opposto è dato dall’ingresso del bambino nell’esistenza mediante la nascita, costui si prepara in modo giusto per la vera esperienza pasquale, che può consistere unicamente nella certezza che soltanto l’involucro corporeo nasce e muore; l’uomo vero e proprio non nasce, così come non può morire.
L’uomo vero e proprio deve unirsi con Colui che è entrato nel mondo come Cristo, che non può morire, che guarda a qualcosa d’altro che non a se stesso quando contempla l’Uomo dei dolori appeso alla croce. Si deve sentire cosa sia accaduto per il fatto che, dalla fine del primo secolo, la concezione dello spirituale è andata gradualmente perduta per la civiltà occidentale. Si potrà celebrare una Pasqua universale quando un numero sufficiente di uomini capirà che è necessario che lo Spirito risorga all’interno della civiltà moderna! Questo fatto potrà esprimersi esteriormente così: l’uomo non ricercherà soltanto nel modo che gli viene imposto stando alle leggi naturali o secondo le leggi storiche, a esse simili, ma sentirà il desiderio di indagare la natura del proprio volere, di conoscere la propria libertà, sentirà in sé l’impulso a sperimentare la vera natura della volontà umana, quella che porta l’uomo oltre la morte, ma che deve essere osservata spiritualmente per poter essere riconosciuta nella sua vera forma.
Come può l’uomo acquisire la forza per il pensiero della Pentecoste, dell’effusione dello Spirito Santo, dopo che l’ottavo Concilio ecumenico di Costantinopoli ha ridotto per dogma questo pensiero della Pentecoste a una vuota frase? Come può trovare la forza per capire l’idea della Pentecoste se non è capace di conquistarsi il vero pensiero della Pasqua, il concetto della risurrezione dello spirito? L’uomo non deve lasciarsi stordire dall’immagine del Salvatore che muore sommerso dai dolori. Deve imparare che il dolore è connesso col fatto di essere legati all’esistenza materiale. Questo era uno dei principi fondamentali dell’antica sapienza, scaturito ancora dalle radici istintive del conoscere umano e che noi, ora, dobbiamo riconquistare mediante un conoscere cosciente. Secondo questo principio il dolore origina dalla connessione con la materia, la sofferenza è generata dal fatto che l’uomo si unisce alla materia.
Sarebbe d’altro canto aberrante credere che il Cristo non abbia patito dolore per il fatto di essere passato per la porta della morte in qualità di essere divino-spirituale. Ritenere che il suo sia stato soltanto un dolore apparente è un pensiero che non ha senso; quel dolore deve essere considerato reale nel senso più efficace che ci sia. Però non va pensato in senso opposto alla sua realtà. Dobbiamo di nuovo riconquistare qualcosa di ciò che si presenta come Mistero del Golgota a uno sguardo d’insieme sull’evoluzione dell’umanità.
Miei cari amici, quando ai discepoli degli iniziati[1] veniva presentata l’immagine dell’uomo massimamente libero, dopo che questi discepoli avevano percorso i vari gradini preparatori e compiuti tutti gli esercizi grazie ai quali essi avevano potuto conquistare certe conoscenze, presentate loro in scene drammatiche, alla fine venivano condotti davanti all’immagine del Chrestos,[2] un uomo sofferente in tutto il suo corpo fisico, avvolto in un manto purpureo e con la corona di spine sul capo.
Grazie alla contemplazione di questo Chrestos doveva sorgere nell’anima quella forza che fa dell’uomo un vero uomo. Le gocce di sangue che stillavano davanti agli occhi del veggente, dell’iniziando, e che scaturivano dalle parti nevralgiche di quell’antico Chrestosdovevano servire a eliminare l’impotenza e la debolezza umane, e a far sorgere il Christos trionfatore dall’interiorità dell’uomo.
La contemplazione del dolore doveva significare la risurrezione dell’essere spirituale. Nel senso più profondo doveva presentarsi in immagine all’uomo ciò che può essere espresso con queste semplici parole: sarà pure che tu debba qualcosa al piacere goduto nella vita, ma se sei progredito nella conoscenza, se hai intuito sempre meglio i nessi spirituali delle cose, ciò lo devi al tuo soffrire, al tuo dolore. Lo devi al fatto che non ti sei fatto travolgere dalla sofferenza e dal dolore, ma hai trovato la forza per innalzarti al di sopra di essi. Per questo motivo, negli antichi Misteri, all’immagine del Chrestos sofferente subentrava quella del Christos vittorioso, che guardava dall’alto al Chrestos sofferente come a qualcosa che viene vinto. Deve venir ritrovata la possibilità di avere dinnanzi all’anima, nell’anima e, soprattutto, nella volontà il Cristo spirituale trionfante. A questo dobbiamo mirare oggi, soprattutto in vista di ciò che vogliamo fare oggi per un avvenire umano che sia sano. Ma non possiamo concepire questa idea giusta della Pasqua se non comprendiamo che bisogna innalzare lo sguardo da ciò che è solo terrestre a tutto ciò che è cosmico, se vogliamo parlare del Cristo.
Il pensiero moderno ha fatto del mondo un cadavere! Oggi osserviamo le stelle, le loro orbite e calcoliamo tutto. Significa che facciamo calcoli sul cadavere del mondo e non sappiamo come nelle stelle pulsi la vita e come nelle loro orbite siano all’opera le intenzioni dello spirito cosmico. Il Cristo è disceso nell’umanità per ricongiungere le anime umane con questo spirito cosmico. Un vero annunciatore del Vangelo del Cristo in quanto tale, è solo colui che riconosce in ciò che appare in modo fisico-sensoriale nel Sole l’espressione esteriore dello Spirito del nostro mondo, lo Spirito risorgente del nostro mondo. Deve diventar vivente la reciproca appartenenza di ciò che è il riverbero dello spirito cosmico nella Luna e di questo Spirito stesso che è nel Sole. Dobbiamo di nuovo aver coscienza vivente del fatto che la data della festa pasquale sia determinata dalla relazione fra Sole e Luna in primavera. Dobbiamo poterci ricollegare a ciò che per l’evoluzione della Terra ha determinato la data della Pasqua a partire dal cosmo stesso.
Dobbiamo sapere che furono i più vigili e protettivi Spiriti del cosmo coloro che, dal grande orologio cosmico le cui lancette sono il Sole e la Luna per l’essere terrestre, hanno evidenziato la più grande e importante ora dell’evoluzione cosmica e umana, quella nella quale va collocata la Risurrezione. Dobbiamo imparare a vivere spiritualmente il percorso delle due lancette Sole e Luna così come, nella nostra quotidianità fisica, capiamo il movimento delle lancette dell’orologio. Dobbiamo ricollegare ciò che è fisico-terrestre a ciò che è sovrafisico e sovraterrestre. Il pensiero pasquale consente solo un’interpretazione a partire dal sovrasensibile, perché col Mistero del Golgota, che è il Mistero della Risurrezione, si è compiuto qualcosa che si distingue da tutte le altre vicende umane. Le altre vicende umane si svolgono sulla Terra in tutt’altro modo da quanto è accaduto al Mistero del Golgota. La Terra ha accolto le forze cosmiche, e a partire da ciò che essa stessa è diventata, le forze di volontà dell’uomo scaturiscono nel sistema umano del ricambio. Ma quando avvenne il Mistero del Golgota, un confluire nuovo di volontà penetrò nel corso degli eventi terrestri. Sulla Terra accadde qualcosa di natura cosmica, e per il quale la Terra fu solo la scena. L’uomo venne di nuovo ricollegato col cosmo. È questo che va compreso, e il pensiero della Pasqua nella sua pienezza si capisce solo con questa comprensione. Perciò davanti alla nostra anima non deve sorgere solo l’immagine del Crocifisso, anche se l’arte ci ha offerto nell’immagine del Crocifisso ciò che vi è di più bello, grandioso, significativo e sublime. Deve sorgere il pensiero: «Colui che cercate non è qui. Al di sopra della croce deve apparirvi Colui che ora è qui, e che parla dal mondo dello spirito, con l’intento di risvegliare lo spirito». È questo che deve farsi strada nell’evoluzione dell’umanità quale pensiero pasquale. Questo è ciò a cui devono elevarsi il cuore e i pensieri dell’uomo.
Nel nostro tempo non ci viene solo chiesto di immergerci in ciò che è già stato fatto. Dobbiamo diventare creatori di cose nuove. Non dobbiamo accontentarci della mera croce, pur con tutto ciò che di bello gli artisti hanno fatto di essa. Dobbiamo udire le parole degli Esseri spirituali che, quando diventiamo dei ricercatori, nella morte e nel dolore ci proclamano: «Colui che cercate non è qui». Dobbiamo allora cercare colui che è qui. A Pasqua dobbiamo trovare il modo di rivolgerci allo Spirito che possiamo trovare soltanto nell’immagine della risurrezione. Allora potremo procedere nel modo giusto dal clima dolente del Venerdì santo all’atmosfera spirituale del giorno di Pasqua. Diventeremo così anche capaci di trovare nel clima pasquale le forze che deve accogliere in sé la nostra volontà, per poter diventare fautori degli impulsi di ascesa dell’umanità, contro le forze del declino. Abbiamo bisogno di tali energie che sono in grado di contribuire al lavoro che c’è da fare.
Nel momento in cui capiremo giustamente il pensiero della Pasqua, il concetto di risurrezione, esso diventerà fervido e illuminante, e riaccenderà in noi le forze di cui abbiamo bisogno per l’evoluzione futura dell’umanità.
***In greco Chrestos (crhstoj) significa: adatto, utile, idoneo, abile. In questo contesto si riferisce al corpo fisico quale strumento più adatto e completo per l’evoluzione dello spirito umano sulla Terra. Essa avviene proprio mediante l’uso e il consumo del corpo, e ciò è legato alla sofferenza e al dolore. Christos (cristoj), in latino Christus, significa, invece, unto ed è la traduzione letterale dell’ebraico Masciach (), Messia. Nell’antichità venivano unti i sacerdoti, i re e i profeti. Lo Spirito solare veniva venerato come il più grande unto dal Padre divino, e gli iniziati facevano l’esperienza che viene riassunta nelle parole di Paolo: «Non io, ma il Cristo in me». Ciò vuol dire: non il mio io pieno di egoismo deve prevalere; questo si deve fare strumento (χρηστος) per l’Io cristico (Χριστος) che vuol diventare sempre più forte in me.
Nella morte “muore” solo lo strumento fisico – il Chrestos – e lo spirito – il Christos – può per questo risorgere in un mondo puramente spirituale. Alla morte di Cristo muore l’involucro umano dell’uomo Gesù e risorge lo spirito di Cristo. L’antica formula per la morte del Chrestos era: «Mio Dio, mio Dio, perché mi hai abbandonato?». È così in Matteo (27, 46) il cui Vangelo è scritto nella prospettiva dell’uomo-Gesù. E per il Christos la formula era: «Mio Dio, mio Dio, quanto mi hai esaltato!». È così in Marco (15, 34) che fin dall’inizio rivolge il suo occhio al Cristo cosmico. Nell’ebraico antico la frase suona quasi uguale in entrambi i casi: «Eli, Eli, lamma azabtani» (mi hai abbandonato) ed «Eli, Eli, lamma sabachtani» (mi hai glorificato, esaltato). Questo fatto ha portato a inversioni e fraintendimenti.
Sono state tramandate sette parole del Cristo sulla croce: tre nel Vangelo di Giovanni, il quale ridà la triplice esperienza dello spirito nel morire umano; tre nel Vangelo di Luca, per le tre esperienze dell’entità animica. La settima parola è quella ricordata: in Marco indica l’esperienza nel corpo vitale (che alla morte s’innalza e si espande nel cosmo) e in Matteo l’evento della morte nel corpo fisico (che nei suoi elementi minerali ritorna nella Terra).
Rudolf Steiner
Conferenza tenuta a Dornach il 27 marzo 1921
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